Salve chef! Sono davvero onorato di poterla intervistare, le va di descriversi in poche righe?
Ciao a tutti, non amo molto i formalismi. Sono Enrico e da quando ho 15 anni ho dedicato la mia vita alla cucina. Oggi sono lo Chef di Piazza Duomo ad Alba e posso dire con orgoglio di aver raggunto tanti traguardi e risultati prestigiosi, ma la soddisfazione più grande è sempre quella di un cliente che ci saluta soddisfatto e con il sorriso e che torna a trovarci. Fuori dal lavoro amo poche cose: passare una serata con Silvia, la mia compagna, o stare in famiglia e giocare con i miei nipoti; inoltre sono un grande appassionato di ciclismo.
Tra le sue numerose attività, una delle più importanti è stata la realizzazione del suo orto, con circa 500 erbe da tutto il mondo, le andrebbe di spiegare meglio di cosa si tratta?
Nel 2007 ho sentito la necessità di costruire una realtà che mi permettesse di accedere al mondo vegetale in maniera più complessa di quello che il mercato mi permettesse di fare. Da qui la volontà di realizzare un orto che servisse esclusivamente il ristorante e che oggi mi permette di seguire la crescita degli elementi, il loro alternarsi nei diversi momenti dell’anno, la loro vera stagionalità e mi porta, a braccetto con i clienti, a riscoprire il vero gusto di tanti elementi che madre natura ci dona.
Lei è conosciuto anche per le sue creazioni vegetariane e vegane, promuove il benessere attraverso il cibo di qualità. Com’è nata la sua idea?
La mia idea non nasce esclusivamente guardando al mondo della cucina vegetariana e vegana, piuttosto a spingermi è stato il desiderio di ricerca, sperimentazione, prove di cottura generalmente riservati al mondo di carne e pesce. Ad oggi applichiamo, nella nostra cucina, delle tecniche che una volta erano riservate solo agli “alimenti proteici”.
Quali sono le figure (non necessariamente chef) dalle quali ha tratto ispirazione durante il suo percorso professionale?
Sicuramente posso citare tanti Chef che mi hanno guidato come Gualtiero Marchesi, Christian Willer, Antoine Westermann e Michel Bras. Nel mondo non della cucina cito tanti artisti ai quali abbiamo dedicato delle cene qui a Piazza Duomo: da Francesco Clemente a Anselm Kiefer, da Kiki Smith a Marina Abramovic fino a Patty Smith.
Quali sono i piatti più rappresentativi della sua cucina?
L’Insalata 21…31…41…51 è uno dei più conosciuti, ma anche la Crema di patate e Lapsang Souchong, la Cacio & Pepe, Agnello e Camomilla, la Panna cotta Matisse e tanti altri. Fortunatamente la creatività sembra non mancarmi mai e l’elenco si arricchisce di anno in anno. Spesso mi sento un priviliegiato nel continuare ad avere così tante idee.
Veniamo al rapporto tra cibo e immagine. Sappiamo che anche l’occhio vuole la sua parte. Quanto reputa importante coordinare i colori e decorare i piatti perché gli stessi possano definirsi perfettamente riusciti?
Amo la coreografia ed il colore nei piatti, è un’eredità che porto con me dalla mia esperienza in Giappone ed è una delle memorie del mio lavoro con Gualtiero Marchesi, da sempre cultore del buono e del bello.
Le sarà sicuramente capitato di lavorare con un food photographer. Quanto conta la sintonia tra chef e food photographer per comunicare adeguatamente l’immagine di un piatto?
Come in ogni scatto, ed in qualsiasi ambito, credo conti moltissimo la sintonia con il food photographer per poter realizzare degli scatti che riescano a comunicare veramente quel piatto. Per questo lavoro con pochi fotografi e da tanto tempo, persone che riescono a individuare l’elemento che vorrei trasparisse e con le quali si è creata una sintonia altissima.
Ci sono dei piatti in particolare che preferisce vengano fotografati rispetto ad altri?
Sinceramente no, tutto dipende dalle stagioni, dal colore della giornata nella quale scatti, dall’umore del momento. È il bello del nostro lavoro quotidiano che si trasporta nel momento della collaborazione con il fotografo.
Che impatto hanno (o hanno avuto) internet, e in particolare i social, nella tua carriera?
Nella mia carriera un impatto bassissimo, non sono neanche presente personalmente sui social. Figurati che il primo smartphone me lo hanno regalato i ragazzi di Piazza Duomo 4-5 anni fa per Natale.
In che misura il termine “tradizione ” si coniuga con il lavoro di uno chef?
La tradizione è sempre presente nel lavoro di uno chef, è parte integrante della cultura di un popolo e non andrebbe mai dimenticata, ma valorizzata, tramandata e, quando necessario, attualizzata. Non dimentichiamoci che tanti elementi dell’innovazione di ieri, sono tradizionali nel nostro presente e questo potrà accadere per tanti elementi innovativi di oggi in futuro.