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Intervista allo chef Pierluca Ardito

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Intervista allo chef Pierluca Ardito

Proviamo a conoscere il capitano della Nazionale Italiana Cuochi, lo chef Pierluca Ardito, che nel corso della sua carriera ha ricevuto premi e riconoscimenti di altissimo livello.
Ho avuto il piacere di collaborare con lui ed è stata per me un’occasione di crescita irripetibile!

Benvenuto chef! Vorremmo conoscerla meglio. Le va di parlarci di lei? Cosa l’ha spinta a diventare il grande chef, nonché capitano della Nazionale Italiana Cuochi, che conosciamo oggi? Da dove parte la sua passione per la cucina?

Buongiorno a voi e innanzitutto grazie per avermi invitato. Ti rispondo subito.

Il motivo principale che mi ha spinto a diventare uno chef è il mio grandissimo amore per la scoperta oltre che la passione per la conoscenza continua di nuovi mondi e culture. Ho tradotto tutto questo nella voglia di sperimentare ai fornelli, mescolando il mio sapere con quanto appreso in giro per il mondo.

Sono diventato uno chef e successivamente capitano della Nazionale Italiana Cuochi perché amo le sfide. Mi piace mettermi in gioco continuamente. La competizione, anche su scala internazionale, rappresenta un grande stimolo, oltre che un’ottima occasione di crescita e confronto con altri eccellenti professionisti.


Quali difficoltà ha dovuto affrontare?

A differenza di quanto si possa credere, la vita di uno chef non è tutta rose e fiori. Per arrivare a certi livelli in questo lavoro, così come in tanti altri campi, è necessario avere una forte abnegazione, senso si sacrificio, fare rinunce.

Oggi siamo abituati ad immaginare lo chef come lo vediamo nel patinato mondo della televisione. La realtà è leggermente diversa da quella.

Mi piace definire lo chef come un artigiano del gusto, che lavora anche 15 o 16 ore al giorno.


Quali sono i segreti per diventare un ottimo chef? Oltre a saper cucinare, occorre avere altre competenze?

Credo di poter menzionare con certezza almeno due doti imprescindibili: umiltà e capacità di team working.
Nel mio caso gestisco quotidianamente un gruppo di oltre 15 persone, per almeno 15 ore al giorno. Non è difficile comprendere che ognuno ha i suoi problemi, i suoi dubbi, i suoi punti di forza e quelli di debolezza.
Per far funzionare tutto al meglio è necessario creare un rapporto umano e sincero, che vada al di là di quello strettamente professionale. Solo così riesco a tirare fuori il meglio da ognuno dei miei ragazzi e posso mettere insieme tutti i tasselli dell’ingranaggio.


Lei da chi ha tratto ispirazione per la sua carriera?

Ci sono tanti grandi chef a cui mi sono ispirato, ma tra tutti voglio menzionare Alain Ducasse, uno dei massimi esponenti della cucina francese nel mondo. Ciò che maggiormente mi piace del suo operato è la voglia di esaltare gli ingredienti e i sapori tipici del Mediterraneo, una caratteristica che mi piace riportare sempre anche nei miei piatti.


Veniamo al rapporto tra cibo e immagine. Sappiamo che anche l’occhio vuole la sua parte. Quanto reputa importante coordinare i colori e decorare i piatti perché gli stessi possano definirsi perfettamente riusciti?

Al giorno d’oggi curare l’immagine è fondamentale, soprattutto in virtù dell’iper esposizione mediatica a cui siamo sottoposti. Non a caso registriamo il boom dei social, che fanno di immagini e video il loro core, o di fenomeni come il food porn. L’immagine inoltre, deve andare di pari passo con gli odori ed i sapori, perché essa è in grado di influire  anche sul giudizio e l’apprezzamento dei clienti.

I colori, infine, sono in grado di trasmettere messaggi sempre diversi, che predispongono i palati a sensazioni di volta in volta differenti.


Le è capitato spesso di lavorare con fotografi food? Per che tipologie di progetti? Quanto conta la sintonia tra chef e food photographer per comunicare adeguatamente l’immagine di un piatto?

Ovviamente ho lavorato spesso con fotografi food. Come tu ben sai, viste le nostre pregresse collaborazioni, credo che tra lo chef e il fotografo food debba esserci un rapporto di totale sinergia, complicità, sintonia. Oserei dire quasi empatia.

Solo in questo modo si riescono a superare davvero i propri limiti e, cosa più importante, ci si aiuta per migliorare ognuno il lavoro dell’altro. Tante volte un piatto semplicemente buono grazie al fotografo diventa anche bello, e viceversa.

 

Pierluca Ardito Piatto di Pierluca ArditoPietanza di Pierluca ArditoPiatto di Pierluca Ardito

 

Ci sono dei piatti in particolare che preferisce vengano fotografati rispetto ad altri? Oppure le sue opere d’arte sono tutte ugualmente belle?

Credo sia giusto e normale avere delle preferenze. Succede così per tutti in ogni settore.

Io ad esempio adoro in maniera particolare i vegetali, mi piace sia cucinarli che mangiarli; ma visto che sono un perfezionista ho allestito anche un piccolo orto nel retro della struttura dove lavoro. Insomma, voglio curare ogni dettaglio in maniera maniacale perché credo realmente che la qualità paghi.

Parlando degli alimenti di origine vegetale, inoltre, vorrei aggiungere una considerazione sui trend in forte ascesa di persone vetegetariane e vegane. Questo fenomeno impone allo chef di essere costantemente aggiornato per offrire sempre piatti eccellenti e ben curati, a prescindere dalla varietà di ingredienti disponibili.

In che misura il termine “innovazione” si coniuga con il lavoro di uno chef?

A mio avviso lo chef non deve solo saper cucinare ma deve raccontare una storia, trasmettere un’emozione attraverso il piatto. Il cliente, d’altro canto, non vuole solo soddisfare il bisogno di mangiare ma vuole vivere un’esperienza. L’innovazione, dunque, si palesa nel vero linguaggio di uno chef, in cui gusto ed estetica si fondono in maniera indissolubile. Ovviamente nessuna delle due componenti può essere sacrificata a vantaggio dell’altra se si vuole creare un piatto indimenticabile.

 

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